Frammenti di storia della tolleranza

Il brillante oratore rivoluzionario Mirabeau rilevava già nel 1789, la necessità di ripensare lo strumento concettuale e pratico della tolleranza.

Nel suo scritto Sur la liberté des cultes, scriveva infatti:

“Je ne prêcherai pas la tolérance car la liberté la plus illimitée de religion est à mes yeux un droit si sacré que le mot tolérance, qui voudrait l’exprimer, me paraît en quelque sorte tyrannique lui-même, puisque l’existence de l’autorité qui a le pouvoir de tolérer attente à la liberté de penser, par cela même qu’elle tolère et qu’ainsi, elle pourrait ne pas tolérer” (H.-G. De Riqueti Mirabeau)

Mirabeau esortava in modo inequivocabile, filosofi e politici a elaborare una nuova idea di tolleranza che si distaccasse dalla definizione originaria di “sopportazione” strategica quanto temporanea di un male (sia esso politico o religioso), e che, di conseguenza, prendesse le distanze dalla sua connotazione storica di concessione arbitraria di privilegi. Tale idea di tolleranza era stata una conquista sofferta e un’eredità, peraltro insostituibile, elaborate dalla tradizione politica Cinque-seicentesca.

Tolleranza come “Permissio negativa mali”.

La prima età moderna concepiva dunque la tolleranza come “sopportazione” caritatevole di chi è nell’errore.  “Permissio negativa mali”: la tolleranza consisteva in una semplice permissione transitoria, un “laisser faire” poiché non era possibile provvedere diversamente. Tale permissione aveva una connotazione chiaramente negativa, non implicava alcuna approvazione o alcuna definitiva concessione di libertà d’agire. L’idea di tolleranza, così intesa, conteneva anzi una forte componente di stigmatizzazione e biasimo per un male che è necessario provvedere a rimuovere. Vale la pena rilevare che, dal punto di vista dottrinario, la chiesa cattolica è rimasta fedele a questa concezione della tolleranza lungo tutta la modernità fino ai decenni recenti.

“Cette définition montre que la tolérance ne saurait, au sens réel du mot, être décorée du titre de vertu,“

decretava l’ampia voce “Tolérance” contenuta nel Dictionnaire de théologie catholique, di A.Vacant ed E. Mangenot, pubblicato durante la prima metà del Novecento .

Pur rappresentando un momento cruciale nella formulazione di una politica di tolleranza nella prima età moderna, l’Editto di Nantes promulgato da Enrico IV nel 1598, non si discosta dal connotare la tolleranza come privilegio accordato, seppure in modo irrevocabile, ad un popolo o a parte di esso in virtù di meriti acquisiti o per la magnanimità dell’autorità regia. Questo editto, pur nella lungimiranza del suo esito giuridico, non era riuscito a sancire definitivamente un diritto. Lungi dal legittimare il dualismo religioso o un pluralismo di credi sul suolo nazionale e lungi dal riconoscere loro uno statuto di uguaglianza dogmatica e sociale, queste concezioni della tolleranza mantenevano i caratteri dell’”esclusione”,  e delineavano con maggiore efficacia i caratteri di eccezionalità, i limiti e la diversità e marginalità dell’”altro”. Non solo l’unità confessionale ma anche la conformità religiosa del re con quella dell’intero reame, il superamento della condizione di guerra civile e il raggiungimento della pace sotto il governo stabile della monarchia francese furono tra le questioni di stato più rilevanti, alla fine del Cinquecento. Con il principiare del Seicento e lungo tutto il secolo, il regime di convivenza e concordia civile che l’Editto di Nantes assicurava alla Francia non riuscirà, tuttavia, a nascondere le sue intrinseche difficoltà legislative e testuali e anzi ne accentuerà le ambiguità e i limiti sia politici che sociali.

Nel corso del Seicento, gli autori che rioccuparono di questioni teologico-politiche non fondarono più esclusivamente il loro appello alla tolleranza, le sue origini e la sua legalità unicamente sul rapporto privilegiato dei sudditi con il loro re, sulla professione di fedeltà al re nei confronti della sua politica interna ed estera, né fondarono le loro riflessioni unicamente sull’ideale umanistico di una concordia cristiana radicata nell’impronta universalista della chiesa medievale. Nei loro scritti essi esaminarono la debolezza della prospettiva ecumenica secondo la quale il concetto teorico e pratico di tolleranza si basava sulla precettistica cristiana della sopportazione caritatevole di chi è nell’errore.  Essi misero in piena luce l’irrealizzabilità dell’ideale irenico il quale richiedeva la delineazione di un “credo minimo”, basato su un buon uso delle capacità razionali dell’uomo, condivisibile dalle varie confessioni cristiane.

Gli stessi autori condannarono, inoltre, l’efferatezza contenuta nell’impegno dei chierici, sia cattolici che riformati, a convertire “gli altri”, gli eretici, gli ebrei ecc. alla “vera” confessione di fede, mediante un perseverante sforzo di proselitismo basato sulla coercizione delle coscienze e sulla violenza invece che sull’insegnamento e sullo studio dei testi biblici.  Il polemista ugonotto Aubert de Versé, in uno scritto del 1684, aveva affermato la necessità di tollerare tutti i credi religiosi – «on doit tolerer dans la Societé civile toutes sortes d’heretiques. Cela est trop clair par la raison et pour la foy».  Nel 1687, nel Traité de la liberté de conscience ou de l’autorité des Souverains sur la Religion des Peuples, (Cologne, (Amsterdam), pp. 3-4), Aubert de Versé affermava:

«Les lumiéres de la raison nous dictent que comme les Souverains n’ont point d’autre droit, ni d’autre pouvoir que celui qui réside naturellement et originairement dans les Peuples, et dont les Peuples ont pû se depouïller, pour en revêtir les Souverains; donc les Souverains n’ont aucun droit de forcer leurs Peuples d’embrasser ou de professer telle ou telle Religion. Parce qu’il est certain que les Peuples n’avoient point le doit de se forcer les uns les autres sur ce sujet.»

Tolleranza: una storia importante

Dal punto di vista sociale ed economico fu esemplare il caso dei Paesi Bassi. Fu la prova evidente che tollerare una pluralità di religioni, garantire politicamente la molteplicità delle aeresis, ossia delle scelte, (secondo il significato originario del termine greco) non equivaleva a propagare l’errore dottrinale e a coniugarlo con il disordine morale, l’insicurezza politica ma costituiva un elemento di stabilità sociale e di prosperità economica.

The constitutional principal established in 1579 by the Peace of Utrecht, recitava infatti:

That every man should remain free in his Religion, and none be examined or entrapped for that Cause.  And the steady adherence to that Maxim has mainly contributed to cherish and support them under all difficulties ever since, so that ‘tis one of the Foundamental Principles of our Policy; the firmest Pile that bouys up our Magnificent Stadt-House. ‘This That to which we owe our Populousness, and consequently our Trade, Riches and Strenght; the Engine whereby we have at once Drained other Nations, and mounted our selves to such an Ascendent of Opulency and Power, as to vye with the most pleintiful Kingdoms and tallest Monarchs.

Non occorre ricordare che John Locke, un secolo dopo, proprio durante il suo soggiorno in Olanda, redigeva la sua famosa Letter concerning toleration.

I materiali concettuali che ho fino a qui elencato diventano elementi costitutivi di un’etica sociale e si codificano in un diritto di libertà (freedoms) e un diritto alla tolleranza che troverà piena espressione nel pensiero illuminista e nei secoli a noi più vicini.

Tocca ai pensatori illuministi sancire il pieno riconoscimento dell’uguaglianza civile dei sudditi, siano essi riformati o cattolici, e affermare uguale legalità e dignità sociale delle due o di più religioni.

Gli editti di tolleranza del XVI e XVII secolo, sia in Francia che in Inghilterra si erano limitati a concedere all’ “altra religione” e a poche altre sette religiose, la possibilità del pubblico culto ma pur sempre con significativi limiti giurisdizionali e geografici.

Non più concessioni temporanee e arbitrarie di tolleranza, ma diritti riconosciuti (“gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”) per natura e sanciti dalla lex, recita la “Dichiarazione” dell’89. La riflessione politica degli illuministi valicava ora i limiti di una concezione della tolleranza intesa come privilegio accordato, seppure in modo irrevocabile, ad un popolo o a parte di esso.  Lungo il diciottesimo secolo, l’intenso dibattito sui diritti dell’individuo e del cittadino pone la necessità di una ridefinizione del concetto di tolleranza che implicava ora la legittimazione e il riconoscimento reciproco delle “alterità” civili e religiose. La tolleranza universale come fratellanza è oramai una virtù. Il riscatto dalla sua semantica negativa è, da Voltaire, compiuto nell’ultimo capitolo del suo Traité.

Nella sua opera The history of the decline and fall of the Roman empire, (2nd ed. 1776) Edward Gibbon si fa erede delle riflessioni di Montesquieu sul mondo greco-romano e dei giudizi di Voltaire concernenti la tolleranza come stigma delle culture antiche. Amplia la sua ricerca sia con capacità erudita che con spirito d’universalità, e nel paragrafo dal titolo “General observations on the fall of the Roman Empire in the West”, nello spazio di poche righe, enuncia le cause militari (armate mercenarie, potere dispotico) e le cause socio-religiose (diffusione e abusi del cristianesimo) che contribuirono alla caduta dell’Impero romano. Ancora più noto il capitolo XV del I volume della sua opera dedicato a “The progess of the christian religion, and the sentiments, manners, numbers, and conditions, of the primitive christians”, nel quale elenca le cinque principali motivazioni dell’affermarsi del cristianesimo:

“I. The inflexible, and, if we may use the expression, the intolerant zeal of the christians […]. II. The doctrine of a future life […]. III. The miraculous powers ascribed to the primitive church. IV. The pure and austere morals of the christians. V. The union and discipline of the christian republic, which gradually formed an independent and increasing state in the heart of the Roman empire. […]. A sigle people refused to join in the common intercourse of mankind.”

Connotato da queste inflessibili prerogative, il cristianesimo rifiutò di unirsi “to the maxims of universal toleration” che regolavano il bene comune e l’armonia religiosa dell’impero romano e costituì una delle principali cause della rovina del mondo antico.

La storiografia contemporanea, su questo tema in particolare (ossia quello relativo al rapporto tolleranza – stabilità – prosperità) risulta debitrice dell’opera di Gibbon. Alcune delle più recenti riflessioni critiche economiche e socio-politiche intorno al concetto di tolleranza rimandano, a Gibbon e oltre Gibbon, all’esemplarità degli antichi e alla correlazione riscontrabile tra “declino” e “intolleranza” e le utilizzano come paradigma nell’analisi economico-politica delle nazioni e delle società contemporanee.

Oltre la tolleranza.

La maturazione del concetto di tolleranza, nel corso della lunga modernità, si era confrontata con progetti irenici e utopici e non si era limitata alla libertà interiore delle coscienze.  Alla certezza di una verità unica e preminente aveva opposto la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana e dunque l’impossibilità o quanto meno l’incertezza intorno alla verità, alla sua preminenza, alla sua unicità. Questa etica del dubbio, e in questo consiste il suo correttivo teorico e pratico, costringe la riflessione intorno al concetto di tolleranza a interrogarsi continuamente sui mutamenti di linguaggio, di metodo oltre che sui contenuti, per non rimanere essa stessa prigioniera di una “verità”, religiosa o politica che si asserisce e si ripresenta come unica.  Inoltre, i più recenti conflitti politici hanno riaffermato falsi patriottismi e pregiudizi, hanno imposto nuove riflessioni intorno al concetto di integrazione e assimilazione politica-giuridica ed economica di comunità rifugiate. Moderni Refuges: refugies conseguenza di guerre e oppressioni del XX e XXI secolo. Nuove  eresie: chiese e comunità religiose di dottrine diverse e talvolta contrastanti nel credo e nel culto.  Elementi che mettono continuamente sotto i nostri occhi le difficoltà contenute in concetti come toleration, assimilation, integration, conformity, respect e nell’attuazione di una convivenza comune entro i confini dell’etica e della legalità di una nazione.

Se dal punto di vista teorico la tolleranza trova il suo supporto in un’etica del dubbio, dal punto di vista della pratica essa deve rivolgersi ad una “etica della relazione” nel doppio significato, di “dialogo” e, soprattutto, in quelli di “relativismo” ed “empatia”, affinché l’incontro, il confluire tra culture, religioni e politiche differenti e antagoniste non proceda nella direzione della violenza, della supremazia e delle rivendicazioni ideologiche ma promuova la democrazia, la libertà e la dialettica del riconoscimento reciproco tra il cittadino e il suo Stato.

Strumenti concettuali come quello della tolleranza non appartengono esclusivamente alla cultura occidentale, come già i filosofi settecenteschi avevano messo in luce, ma sono condivisi nel variegato mondo islamico e nelle culture del medio e dell’estremo oriente. Ibridazioni reciproche tra Est e Ovest avvenute nel corso della Storia che ancora devono essere studiate e approfondite come archetipi di problematiche attuali e che devono essere utilizzate come paradigmi d’arricchimento culturale e sociale, di emancipazione e di cosmopolitismo.

Come individuare una normativa statale che garantisca libertà, diritti umani e sicurezza dello stato e allo stesso tempo garantisca la protezione e il rispetto delle identità “diverse”? Vie quali quella della assimilazione e della conformità, sia nelle esperienze storiche Sei-settecentesche (es il refuge ugonotto) sia nella esperienza politica internazionale di oggi, hanno mostrato l’incapacità di garantire il rispetto della identità culturale e sociale degli “altri” –una questione che richiede un esame specifico e che ora sono obbligata a lasciare da parte- e richiedono la sperimentazioni di nuovi modelli sociali e statali basati sulla empatia come processo conoscitivo dell’alterità e sulla corresponsabilità nella gestione politica dello stato.

 

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